15 settembre 2013

Così cinque anni fa cominciava la crisi...

di Roberto Marino 

"Era una notte buia e tempestosa...", questo è l'incipit dell'interminabile romanzo che Snoopy, il simpatico e cinico bracchetto uscito dalla penna - pardon, dalla matita - di Charles Monroe Shulz, prova continuamente a scrivere. Interminabile come questa durissima crisi economico-finanziaria iniziata cinque anni fa.

Quello di cui oggi ricorre un triste anniversario, del quale avremmo fatto volentieri a meno, non è però una notte - seppure altrettanto buio e tempestoso - ma un giorno, passato alla storia (recente) come "black Monday". Era infatti un lunedì il 15 settembre 2008, giorno in cui la Lehman Brothers, una delle più grandi e potenti banche americane d'investimento del mondo, annunciava di avvalersi del Chapter 11 del Bankruptcy Code statunitense; il che significa che dichiarava bancarotta. Quella data ha segnato l'inizio del grande putiferio che ha caratterizzato la fine degli anni Zero e l'inizio dei Dieci di questo XXI secolo e da cui non si riesce ancora ad uscire. Black Monday che ci ricorda un altro "black day" rimasto famoso nella storia, il Martedì nero del 29 ottobre 1929, che diede inizio alla Grande Crisi.

Se i paragoni storici risultano spesso un po' azzardati e grossolani, almeno dal punto di vista delle cause, possono non esserlo per quello che riguarda le conseguenze. Il contesto che caratterizzava il mondo e l'Europa alla fine degli anni Venti e all'inizio dei Trenta del secolo scorso era ben diverso da quello odierno. Non esisteva la globalizzazione dei mercati economici e finanziari come la conosciamo oggi, esisteva invece una forte determinazione nazionale dei singoli Paesi europei. La speculazione finanziaria era meno o diversamente aggressiva e gli Stati Uniti si trovavano ancora in una posizione geopolitica prevalentemente isolazionista, nonostante i forti flussi di capitali indirizzati verso la Germania che avviarono il processo di ricostruzione. 

Il forte protezionismo americano fu sicuramente, dal punto di vista strettamente economico, una delle concause della grande crisi degli anni '30, perché non permise una libera circolazione di merci e un riassorbimento all'esterno delle sovrapproduzioni interne delle stesse. E' anche vero però che l'Europa visse una situazione meno drammatica rispetto a quella americana (ad accezione della Germania che dipendeva fortemente dai capitali americani e che per le gravi difficoltà imboccò quella via dittatoriale che conosciamo bene e che le consentì di diventare una tra le grandi potenze) proprio a fronte di una forte caratterizzazione nazionalistica, che impegnava i governi (spesso dittatoriali) a forti interventi di pianificazione. In America invece la situazione fu di gran lunga più nera e soltanto l'intervento dello stato con il varo del New Deal rappresentò un tentativo di risposta (pubblica) al problema. In ogni caso, ci vollero anni ed una guerra da 50 milioni di morti per la ripresa vera e propria, mentre intanto, proprio negli Stati Uniti, si verificava più o meno quello che accade oggi in Europa e nell'area mediterranea in particolare: crollo dei consumi, chiusura delle aziende, perdita del lavoro, disoccupazione.

Se la forte caratterizzazione nazionale fu uno dei punti di "forza" dell'Europa di ottanta anni fa, oggi è di sicuro un punto di debolezza. La difesa di interessi nazionali, che si regge sulla mancanza di una Unione forte di carattere politico, sulla carenza di regole certe ed uniformi di stampo economico-finanziario, sulle differenze che spesso sono divenute lacune di tipo culturale, ha creato una Europa a due velocità. Un organismo simile non ha potuto e non può dare risposte nette e decise alla crisi, che diventa, per questo ed altri motivi, globale o quasi. 

Sì, perché altri Paesi, i cosiddetti emergenti come la Cina - ma lista è lunga - ad esempio, hanno registrato tendenze opposte rispetto all'Occidente, con punte di crescita anche del 7-8% l'anno di Pil. Ovviamente, la specificità della crescita della Cina è stata caratterizzata dalla capacità di sapersi incuneare nelle debolezze dell'economia europea, in particolare italiana, sfruttando, come sempre accade, la difficoltà di qualcuno per avvantaggiarsene, così come dalla presenza di una tutela legislativa e sociale decisamente inferiore rispetto a quella dei Paesi della vecchia Europa e dell'Italia nello specifico.

E' innegabile però che la crescita ci sia stata, a parte tutte le specifiche del caso, anche e soprattutto per la maggiore flessibilità dei Paesi emergenti di fronte al cambiamento globale. L'Europa, almeno una certa parte, e l'Italia non sono state in grado di adeguarsi, rinunciando ad impostare un programma di riforme legislative ed economiche strutturali in grado di resistere alla crisi e provare a superarla. 

Proprio due giorni fa il commissario dell'Ue, Olli Rehn, ha messo in guardia l'Italia per quanto riguarda la situazione economica, mostrando preoccupazione per l'ulteriore calo del prodotto interno dello 0,2% nel secondo trimestre di quest'anno. E c'è anche il rischio che il rapporto deficit/Pil possa nuovamente superare la soglia critica del 3%, riportandoci nella procedura di infrazione chiusa poche settimane fa. E' innegabile dunque che si avvi un processo di riforme nazionali (ed europee) così come lo stesso Rehn ha invitato a fare, che potrà partire solo quando si deciderà di mettere da parte le beghe politiche di altro genere, si smetterà di temporeggiare e si comincerà a lavorare. Nulla di nuovo vero, ma rimasto ancora lettera morta.

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