20 settembre 2013

Roma capitale d'Italia

di Roberto Marino 


Chissà quanti studenti ed ex studenti liceali si sono trovati a tradurre la famosissima frase del De Oratore di Cicerone: «Historia magistra vitae», "La storia è maestra di vita". Ed effettivamente il grande oratore latino non si sbagliava affatto. In particolare, la Storia diventa ancora più maestra quando ci passa molto vicino, proprio come è accaduto il 20 settembre 1870, giorno della Breccia di Porta Pia. 

L'episodio dello sfondamento delle mura della Porta - disegnata da Michelangelo e fatta costruire da Papa Pio IV tra il 1561 e il 1565 - segna l'effettivo completamento del processo risorgimentale, che ha portato all'unificazione del regno d'Italia. Va precisato però che l'attuale superficie del territorio italiano (con l'aggiunta dell'Istria) si raggiunse soltanto in seguito alla fine della I Guerra Mondiale con i trattati di Parigi e Rapallo, attraverso i quali l'Italia ottenne il Trentino, Trieste e, appunto, l'Istria. 

Come ormai tutti sanno - non solo grazie allo studio della storia fatto a scuola, ma anche alle celebrazioni del 150° anno della unificazione italiana che si sono svolte due anni fa e che hanno rinfrescato la memoria a chi ne aveva bisogno - il 17 marzo 1861 l'Italia fu dichiarata regno unitario con l'assunzione del titolo regale da parte di Vittorio Emanuele II. Rimaneva però ancora aperta la questione romana. 

Il 27 marzo 1861, il presidente del consiglio dei ministri, Camillo Benso conte di Cavour, aveva affermato, in un solenne discorso tenuto alla Camera dei deputati, che soltanto Roma avrebbe potuto ricoprire il ruolo di capitale del nuovo stato. Per motivazioni di elevato spessore morale, culturale, storico ed intellettuale precisa Cavour nel suo discorso, in quanto «Roma è la sola città d'Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali, tutta la storia di Roma, dal tempo dei Cesari al giorno d'oggi, è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande stato». 

Uomo d'altri tempi Cavour, non c'è dubbio, in grado di suscitare grandi passioni, infiammare i cuori in vista della realizzazione di un grande progetto - del resto lo aveva già dimostrato guidando politicamente e culturalmente il processo di unificazione - stemperando, contemporaneamente, l'eccessivo interventismo sia delle forze di sinistra che di quelle nazionalistiche di destra attraverso un richiamo alla grandezza storica e morale di Roma e alla sua neutralità culturale. Le prime avrebbero infatti voluto marciare su Roma già in quello stesso 1861 per realizzare uno stato laico, le seconde avrebbero voluto fare altrettanto per orgoglio nazionale. 

Un'azione di quel tipo e in quelle condizioni storiche e politiche non era però possibile e neppure auspicabile. A difendere la città di Roma, sede pontificia e simbolo del potere temporale del papa e della cristianità, c'erano i francesi di Napoleone III. Lo stesso imperatore francese che aveva aiutato l'Italia a realizzare la propria unità a spese dell'Austria e che doveva difendere il cattolicesimo dalle incursioni italiane, pena l'abbandono dell'elettorato cattolico. Invadere Roma avrebbe significato scatenare una guerra con la Francia, che il neonato regno d'Italia non avrebbe potuto sostenere.

Per questa ragione, nel settembre 1864 i due Paesi firmarono una convenzione che risolveva la questione romana. Il documento stabiliva che Napoleone III accettava di ritirare le proprie truppe da Roma e lo stato italiano si impegnava a non invadere lo Stato pontificio e a trasferire la capitale da Torino a Firenze. Fu scelta la città toscana, sia per la sua posizione strategica che la poneva al riparo da eventuali invasioni della valle Padana, e sia logistica in quanto posta al centro del Paese. Ma la soluzione lasciava ovviamente delusi i protagonisti e sostenitori del Risorgimento - soprattutto i democratici - che volevano dare un taglio netto con la storia preunitaria e con ciò che restava di essa, che si manifestava nel potere temporale della Chiesa. 

L'occasione per realizzare il progetto della presa di Roma si manifestò nel 1870, durante la guerra franco-prussiana. L'1 settembre di quell'anno, l'esercito francese fu sconfitto a Sedan dal comandante in capo dell'esercito prussiano, Helmuth von Moltke, che lo costrinse alla resa. Napoleone III perdeva il potere e l'Italia, cinque giorni dopo, pensò di approfittarne chiedendo al papa Pio IX il consenso per annettere Roma e il Lazio al regno d'Italia in cambio di alcune garanzie. Il pontefice rifiutò e il 20 settembre le truppe italiane entrarono a Roma, violando la sovranità dello stato pontificio e causando simbolicamente uno squarcio nelle mura della Porta Pia a segno della rottura di un sistema di potere secolare. Nel gennaio dell'anno successivo, la capitale fu spostata a Roma e il 13 maggio fu approvata la legge delle guarentigie (garanzie), che assicurava al papa l'inviolabilità della persona, gli onori sovrani, il diritto ad un corpo di guardia armato a difesa dei palazzi vaticani, il pieno esercizio delle proprie funzioni di capo spirituale e una generosa dote finanziaria annua come risarcimento pari a 3.225.000 lire (rivalutato dall'Istat al 2009 in circa 13,5 milioni di euro).

Il Papa non accettò la legge, definendola un «mostruoso prodotto della giurisprudenza rivoluzionaria», si dichiarò prigioniero politico e promulgò il decreto Non expedit (non conviene), attraverso il quale vietava ai cattolici di partecipare come elettori e come eletti alla vita politica dello Stato italiano. Soltanto in epoca giolittiana, nel 1913 con il patto Gentiloni, la questione fu risolta. Il nuovo papa Pio X accettò la partecipazione dei fedeli alla vita politica, allo scopo di fermare l'avanzata delle forze socialiste e anarchiche e nel 1919 nacque, ad opera di don Luigi Sturzo, il primo partito cattolico italiano col nome di Partito Popolare Italiano (PPI). 

Ciò che accadde dopo è storia del Novecento, che ben conosciamo. Certo è che il popolo italiano difficilmente toccò, nei decenni che seguirono, punte di alto valore morale come durante il Risorgimento, se si escludono rare eccezioni. Grandi ideali, passioni, impegno civile da parte di intellettuali e gente comune, che, in prima persona e spesso rischiando la propria vita e la libertà, si impegnarono a realizzare un sogno secolare; questo fu il Risorgimento. Oggi sembra che quei valori siano stati messi da parte, perché sempre più spesso notiamo grandi difficoltà nel riuscire a fare squadra e realizzare il bene comune. Individualismo fine a se stesso, corruzione, mancanza di visione d'insieme e senso della collettività, scarsa lungimiranza della classe dirigente, litigiosità inconcludente ed autoreferenziale della politica stanno generando un cocktail pericoloso per la società. Tutti elementi che "fruttano" all'Italia una cattiva fama all'estero, simbolo di una vulgata forse un po' approssimativa ma anche quadro di una gran fetta di società esistente. 

Riprendere in mano valori sani è invece il miglior modo per onorare la nostra cultura - fatta anche di elementi dignitosi e invidiati -, dimostrare di aver imparato la lezione della Storia, non lasciare che questa ci passi di lato. 

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